La casa dei libri addormentati

La casa dei libri addormentati

LEGGERE COME PERDERSI, SCRIVERE COME RITROVARSI. Parte prima.

Da molti anni medito su come spesso leggere mi appaia come un modo di perdersi, scrivere come un modo di ritrovarsi.
Posto che nessuno dei due termini ha per me un valore assoluto o facilmente determinabile, nel bene e nel male, inizio con questa pagina una riflessione sul valore del leggere e dello scrivere che, per certi aspetti può risultare parallela alla riflessione, sviluppata quest’estate sul valore del perdersi e del ritrovarsi nel solstizio d’estate.

Devo accettare di perdermi un po’ per aver poi la sensazione di ritrovarmi. Probabilmente sono sempre e solo sensazioni, ma… di questo viviamo!
Non posso d’altro canto pensare di ritrovarmi senza che una qualche forma di perdizione possa richiamarmi all’approfondimento del senso del mio ritrovarmi. Non ci si trova mai una volta per tutte!

Leggere e scrivere, allontanarsi o riavvicinarsi a sé stessi, risultano allora atti respiratori analoghi all’inspirazione o all’espirazione.

Non siamo nulla di stabile al di qui o al di là di un prendere o lasciare andare qualcosa che, per un attimo, nel mistero del sublime e insondabile mistero dell’attimo presente, chiamiamo l’essere noi-stessi. Il sentirci in noi-stessi. In fondo, semplicemente, respirare.

“Forse l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti. Ma è certo che quando mi svegliavo così, mentre l’essere mio si agitava per cercar di sapere dove fossi, senza riuscirvi, tutto girava intorno a me nel buio: le cose, i paesi, gli anni. ”

Trovate questa frase di Proust all’inizio del primo volume de La ricerca del tempo perduto. Avendo depositato questa convinzione da molti anni nel mio cuore e nella mia mente, alla luce di questa considerazione, vorrei condividere l’esperienza di un riveglio dei giorni scorsi.
Trascrivo pertanto le mie note, per una volta, pazientemente manoscritte.
Ieri mattina, al risveglio, ero stanco e dolorante. Succede. Difficile distinguere convalescenze da croniche debolezze di origini diverse.
Quando ti svegli così, non sai mai dove collocarti nello spazio e nel tempo. Nelle abitudini. Nella fase biografica.
 
E’ ancora Proust, in quei dintorni, a suggerire analogamente:
“Un uomo che dorme tiene intorno a sé in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi. Li consulta istintivamente svegliandosi e vi legge in un attimo il punto della terra ch’egli occupa, il tempo trascorso fino al suo risveglio: ma i loro giri possono confondersi, spezzarsi.”
 
Ieri mattina, forse per uno di questi equivoci, mi son trovato tra le mani un libro.
Ho già dichiarato quanto l’abitudine alla lettura sia decaduta negli ultimi anni della mia vita.
Devo stare attento! Ho comunque sempre troppi libri a portata di mano. Non sarebbe più il caso…
Forse casa mia, se non una biblioteca (questo non lo sopporterei) è sicuramente una casa dei libri. La casa dei libri addormentati. Una grande camera da letto guttemberghiana.
Mi son trovato tra le mani un piccolo libro in cui J.P.Vernant racconta a nipoti e pronipoti, la storia di Ulisse. Delizioso. Tenerissimo.
Così diverse cose mi han portato indietro nel tempo. Ho visto ruotare intorno a me diverse abitudini e periodi della mia vita.
Innanzi tutto l’abitudine a leggere appena sveglio non mi appartiene più.
Gaston Bachelard, che scrive la  sua preghiera mattutina, chiede non gli manchi mai la sua fame e sete di lettura. Che peraltro non deve essegli mai mancata. La preghiera era evidentemente efficace!
“Fin dal mattino, davanti ai libri accumulati sulla mia tavola, faccio la mia preghiera al dio della lettura: “Dacci oggi la nostra fame quotidiana…”
(Gaston Bachelard, La poetica della reverie, pag. 33)
Per quanto la morte di Dio abbia incrinato la possibilità di pregare, anche per me la lettura era il primo pensiero al mattino.
Ad un oculista che me lo chiedeva devo acer raccontato che leggevo quasi tutto il giorno. In quegli anni anche sul pentagramma. In realtà non ci credo affatto ma non ci credevo nemmeno allora. L’identità di Flaneur è sempre stata per me una preziosa risorsa. Una sorta di salva-vita.
Se credo, e lo credo, che tutti mentano figuratevi se posso credere a me stesso. Il più improbabile, il più sospetto degli interlocutori! Come se non amassi “andàa de sfroos”, andare di frodo o di sfroso! Chiamatelo Bateleur, Bagatto.
Ma tornando a me, alla mia esperienza, in cui la Recherche e l’Andàa-de-sfroos si contaminano allegramente, ci sono stati anni, forse decenni, in cui il filo della mia vita si riconosceva nella riga della carta stampata.
Poi si chiudeva il libro e c’erano carta e matita. Si provava a schedare. Trascrivere qualche tratto saliente. Esercizio ancora suggerito in qualche corso di scrittura creativa. Ancora oggi trovo qualche schedina quadrata usata come un segnalibro, disseminata qua e la. Una frase, un autore, la sigla di un titolo, il numero della pagina.
Ma questo è il meno peggio. Mi fa piuttosto grande tenerezza! Terribile ed imbarazzante è invece trovare interi quaderni di annotazioni, pagine scritte che non portano da nessuna parte. Mi fanno orrore. Dopo poche righe non riesco a legger più nulla. MI va insieme la vista. Quante menzogne! Su di me, sulle cose, su improbabili visioni del Mondo.
Cose senza capo né coda. Una valanga di materiale che mi appare franato da chissà dove verso chissà cosa. Sommerso ormai da non so quale alluvione.
Di tutto mi restan le decine, forse pochissime centinaia di pagine sopravvissute. Orfani adottati che han trovato rifugio nelle mie modestissime pubblicazioni.
Ma forse, da dietro un qualche fondale, sono loro, le parole abbandonate, alluvionate, terremotate. Sono loro che premono, che spingono, che reclamano i loro diritti all’esistenza e, prendendomi in contro-piede, mi regalano le paginette che dissemino oggi in questo spazio virtuale, in queste scrivanie esplose nel cielo.
Scrivanie tali chè non riesco più a leggere, a seguire il rigo della parola scritta. Perchè non c’è più la venatura del legno del “fedele tavolo di scrittura” (cfr “Il tavolo” http://amoit.ru/CulturaRussa/Letteratura/PoesieXX/PoesieCvetaeva.html)
(continua)

2 pensieri su “La casa dei libri addormentati

  1. Carissimo Francesco, ho stampato l'articolo per dare il tempo, con più letture, di risuonare dentro di me.
    Riporto quello che ho sentito/provato: l'oscillazione dinamica del perdersi e ritrovarsi la  provo spesso e, nel condividerla, mi conforta come condizione esistenziale comune. Hillman descrive la metafora del discendere per ri-trovarsi.
     Ho sentito, ancora, il ritrovarsi per mezzo dei tanti libri posseduti. Non leggerli/rileggerli, non comprarli più significherebbe non esistere? Come il solitario personaggio di R. Brautigan ne "la casa dei libri"? L'allocazione, nello spazio e nel tempo, della sua esistenza, fornita  dalla quantitià di libri accantonati, un vero e proprio cimitero, può ripagare la solitudine?
    Quante domande…i tanti quaderni scritti ("fanno orrore") rappresentano uno zibaldone ed è possbile che dentro di essi non ci sia la verità ma la menzogna su di sè. Lo sfogo, ovvero, che nasce dal potente motore emotivo, come quando il manufatto esce dalle mani dell'artista. Come può darsi che siano dei segni, lasciati nel cammino del tempo.
    Antonello

    1. Caro Antonello
      grazie dell’attenzione.
      Riprendo volentieri il primo dei punti che rilevi.
      La dinamica del perdersi e ritrovarsi.
      Oltre che dal grande Hillman, questo modo di sentire il problema, nella mia esperienza, è nato nel corso dell’insegnamento ai giovani liceali.
      Trattando indirettamente il delicato tema della tossicodipendenza ho pensato che non si trattasse di un fenomeno simile a quello che conosciamo in antropologia come ORGIA DIONISIACA.
      Mi sono chiesto appunto come decifrarne il significato. Ho pensato che in quella esperienza ci fosse la matrice di quel perdersi per ritrovarsi di cui andiamo parlando.
      Ma anche in altre culture c’è tracci di uno smarrimento provocato (dalle sostanze, dal sonno, dall’ipnosi) finalizzato al ritrovarsi su un piano più profondo.
      Un perdersi per approfondire la coscienza di sé.
      Il problema delle tossicodipendenze nella nostra epoca sta nel fatto che mentre quei riti di perdizione erano occasionali, somministrati con saggezza e servivano solo a far intuire l’esistenza di un’altro piano di coscienza, nella tossicodipendenza ci si ferma allo stordimento e non si procede mai al ritrovamento di sé.
      I profeti della psichedelia hanno pensato fosse ancora possibile questa modalità che invece è quasi impraticabile in questa epoca.
      E’ come se ci fosse la tendenza ad una delle forme più acute dell’alcolismo: l’ubriacatura da aperitivi!
      Non si riesce, in altre parole, a comprendere come il bello dell’orgia dionisiaca non sia la fruizione notturna ma il doversi ricostruire la mattina dopo!
      Un caro saluto!

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