Psicologia delle fratture nella biografia umana

Le fratture nella biografia umana

Le fratture sono eventi.
La nostra biografia non riesce a farne a meno.
Quali fratture hanno costellato il corso del tempo della nostra biografia umana?
Pensiamo a un divorzio, alla separazione da una persona cara. Consanguinea o meno.
Una svolta improvvisa nella nostra vita lavorativa.
O semplicemente, ed è quello che è capitato a me in questi giorni, la frattura di un osso.
Sì, quello per cui i nostri ortopedici, definiti sarcasticamente da molti “i falegnami”, somministrano ingessature e prodigano cure e rimedi chirurgici.
Applicazione di placche o, in altri casi, inserzioni di protesi. Ne ho visti diversi in questi giorni. In ospedale, accanto al mio letto.
A me è stata applicata una placca di sostegno nell’osso di un piede.
Il malleolo, di cui, finora, a mala pena conoscevo il nome.
Mi è chiesto di conoscerlo meglio. (I versi finali recitano “Chiameranno ogni cosa per nome”).
Devo applicarmi alla saldatura assistita di un osso del piede.

Per un verso quindi ho lasciato che i falegnami facessero coscienziosamente il loro lavoro.
A me resta il lavoro interiore.
Ma che lavoro può essere il lavoro interiore di un fratturato?
Per rispondere a questa domanda mi servo di interlocutori differenti dai falegnami-ortopedici che comunque, come san Giuseppe, sono spesso delle gran buone persone.
Mi serve il conforto di un’idea attinta dal repertorio della Medicina Antroposofica. La medicina cui Rudolf Stiner e la dottoressa Ita Wegman, una dottoressa russa (forse l’Angelo di San Pietroburgo) hanno dato impulso.
Secondo la visione della medicina antroposofica la frattura di un osso  costituisce, nella biografia umana, un potente richiamo alla parte più sublime e sottile dell’essere umano (Io, riflesso del Sè spirituale) a chinarsi sulla parte più interna e solida dell’organizzazione corporea. Lo scheletro saturnio dell’osso. Quella che sostiene il peso.
Ciò di cui ho parlato in una pagina per me memorabile. Intitolata con un verso di Mario Luzi: “Lasciate il vostro peso alla terra”.
Una pagina che costituisce il primo capitolo di un possibile percorso meditativo. Questo, almeno, è stato il mio.
La parte più sublime e immateriale, l’individualità di ciascuno deve chinarsi a questo “lavacro dei piedi”.
Nel mio caso la figura è calzante. La calza è quanto veste, giusto, il nostro piede.

Lunedì saranno cinque anni che esiste il mio sito. Cinque anni, un lustro.
Quando ne avrò collezionato parecchi potrete chiamarmi illustre eventualmente illustrissimo.
La prima tappa comunque è fatta.
Ora mi tocca occuparmi di ricostruire il piede con la forza dell’Io.
Giusto il tallone, quella parte del corpo in cui Edipo portava la cicatrice che lo ha reso riconoscibile. Ma anche il tallone di Achille. La zoppia comunque (Clacante e non solo) è sempre stata un segno iniziatico.
In una pagina che amo particolarmente indico la venuta del Cristo come il sonno che ottenebrò Calcante.

Non sappiamo chi siamo. Non lo sapremo mai. Ma le fratture servono probabilmente anche loro. Una occasione per provare a conoscerci un po’. Fin dentro le ossa, in questo caso. Romperci e, se possibile, ripararci. Rinsaldare le ossa. Ma le ossa dei vecchi non sono quelle di un bambino.

Nella mia vita, pensavo fino a poche ore fa, ho sperimentato fratture un paio di volte.
Una frattura della rotula, nel periodo dei 42 anni e questa, recente, del piede di cui ancora poco posso dire. Indizi ne ho a palate ma devo tenerli per me.

La frattura della rotula, sempre, come il piede, dalla parte destra, la mia parte debole, ha segnato la mia biografia sviluppando una devozione penosa che mi ha portato spesso a salmodiare “Maestro ginocchio”.
Dopo questa frattura sono stato costretto a rimettere mano allo Yoga che avevo imparato nei mesi precedenti e che avevo inteso in senso eminentemente mistico.
Sì, ma il misticismo deve arrivare a impregnare le ossa e non è facile.
Per questo mi è servito l’aiuto di Maestro-ginocchio.
Ho riflettuto sul fatto che il ginocchio è l’occhio degli arti inferiori.
Quello che avanza per primo nella marcia della vita quotidiana.
Il piccolo esploratore col cannocchiale. La piccola vedetta lombarda. Il gin-occhio, l’occhio ginnico! Guardare dove si mettono i piedi! Quante volte l’han detto al bambino.

A quella svolta della mia vita posso fare risalire, per vie che non è il caso che indichi qui, giusto la vocazione ad essere quello che trovate in questo sito.
Oggi lo chiamano blogger che forse è una versione dialettale dello scrittore.
Insomma colui che scrive queste paginette.

Di quel periodo in cui è nato lo scrittore che oggi è poco più che un bambino, con l’aiuto sempre solerte e prezioso dell’editor di questo sito, Mariangela Lecci, ho reperito una poesia che vorrei offrirvi oggi in modo curioso.
Se dovessi indicare la frattura (manifestatasi poi nella frattura della rotula) indicherei quella poesia e qualche altra decina di pagine riflessive che poi si sono disciolte in diverse direzioni tuttora viventi.
La poesia, per quanto mediocre, no, quella non si scioglie. Poesia è ciò dura. Meno solubile al tempo.

Una poesia autunnale alla vigilia di una primavera.
Perché vi stupite? Ogni primavera ha alle spalle un autunno. È così da sempre.
Ma un attento lettore troverà la traccia nemmeno troppo nascosta che lega questa poesia (mediocre, ma questo qui non importa) dalla curva del tempo, alla vertigine del tempo che ci precipita qui.
L’insegna del mio primo blog era  “La curva del tempo” (oggi non è più on-line).
Il secondo (ancora on-line come cimelio) “Vertigine del tempo”.
Fino a questa creatura che in queste ore compie cinque anni in cui i due termini (curva e vertigine) appaiono come categorie nell’architettura del sito.
Una creatura questa che in vigilia di primavera manifesta vivo desiderio di fiorire.
Ne parlerò presto.
Ora devo chinarmi alla lavanda del piede.
Albero-di-pescoNel frattempo vi offro questa vecchia poesia e una nuova fotografia scattata domenica scorsa da Nataliia Radcenko, che ringrazio.
Infrangendo le regole di quell’ospedale sono uscito un’ora per una gita nel piccolo giardino antistante l’ospedale e ho beneficiato di questa fioritura.
Gratitudine anche per le fratture?
Ciascuno decida per sé.
Io a provare gratitudine, per ora, ci provo.

In alto l’immagine. Qui sotto, nel fertile sottosuolo, questi versi.
Più che modesti ma credo che siano una buona radiografia della frattura della rotula da cui, con l’aiuto di maestro Ginocchio, sono arrivato fin qui.

 

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7 ottobre 1993

E non più pioggia possiamo chiamare
chi piange da giorni nel cielo
e ogni notte sussurra alle foglie
che mantengano il verde
in ottobre inoltrato.

Sussurra che niente è perduto
e altri saranno gli appelli
e chiameranno le foglie per nome
per condurle alla terra
a nuova terra creare.

Chiameranno ogni cosa per nome
nel tempo propizio
a occultare il seme dell’anno.

Soffieranno parole nel flauto
di neve. C’è un campo che al grano
per quanto in silenzio
non è dato abitare.

Respira nel cuore dell’anno.

Cammina nel passo d’inverno
il Mistero.

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12 pensieri su “Psicologia delle fratture nella biografia umana

  1. Fra, la poesia è bellissima, e le tue riflessioni hanno una sostanza nuova, che non so e non voglio dire così, ma che mi colpisce e mi parla. La tengo vicina. Un bacio, soror

    1. Sorella elettiva ti ringrazio della tua attenzione affettuosa e devota. Ma non sei solo sorella, sei anche poeta e il tuo giudizio è generoso! Nulla in me riesce a vincere il mio senso di inadeguatezza rispetto alla Poesia che amo e vedo scritta da quelli che chiamo poeti.
      Ma in questi casi, oltre a non saper che faccia fare, colgo tutto l’affetto e la gratificazione che sottendono. Un abbraccio!

  2. Che bello questo articolo, nonostante la frattura! Grazie!
    Mi viene in mente il “kintsugi”, un’arte giapponese che consiste, quando un vaso si rompe, nell’incollare nuovamente i pezzi con colla o lacca mescolata a polvere d’oro. I segni della “frattura”, così, diventano magnifiche cicatrici dorate, che conferiscono al vaso un valore molto maggiore, perché lo rendono unico….

  3. …ma poi, dentro le ossa cosa c’è? Il midollo, che deriva da medulla che è la mollica di pane: pane siamo, è proprio così: le ossa sono la crosta, il midollo la mollica, e noi panini, cotti, croccanti, siamo cibo per gli altri, come in quell’Upanishad in cui il Brahman recita proprio “Ahamannam, Ahamannam, Ahamannam, Ahamannado, Ahamannado, Ahamannado”: Io sono Cibo, sono Cibo, sono Cibo, Io sono il Mangiatore del cibo, il Mangiatore del Cibo, il Mangiatore del Cibo….”. E siamo “com-pagni”, quando mangiamo insieme ad altri il pane: il pane che è fatto di acqua aria terra fuoco e racchiude l’universo intero plasmato e cotto dal desiderio e dal lavoro umano….

    1. Grazie di questo ulteriore, toccante e competentissimo commento!
      Il tuo sguardo coniuga le Upanishad al fondamento del Cristianesimo. L’eucaristia.
      Nel frattempo, data il mio ben noto imbarazzo a rispondere ai commenti, a maggior ragione se lusinghieri, è uscita la continuazione di questa pagina in cui si parla appunto, nella mia esperienza di fratture ossee e lesioni midollari!
      Rispetto al mangiare, mi viene in mente una considerazione che ho fatto quanto facevo l’insegnante di libera religione nei licei steineriani.
      Avendo tutte e cinque le classi del liceo e sperimentando tutte le fasce di crescita dei ragazzi avevo pensato che se un insegnante si lascia “masticare” nei primi due anni (quelli che qualcuno chiama ancora il “ginnasio”… se ci si lascia masticare senza sentire diminuita la propria dignità dal dissenso provocatorio giovanile, allora l’ingresso ai tre anni finali del liceo diventa una passeggiata.
      Se ci lasciamo “masticare” senza paura, trasformiamo poi le ore liceali in conversazioni universitarie.
      Per me è stato davvero così!

      1. Ti rispondo con una citazione: “Ahamannam”, Io sono Cibo: così canta il Brahman nella Taittiriya Upanishad, “sono cibo e sono il mangiatore del cibo […] sono l’oro e la luce […] chi mi dona mi ha”. E’ bellissimo questo tuo lasciarti “masticare”! Grazie!

  4. mi è piaciuta questa lettura della frattura (figlia di un falegname io mi sono fratturata più volte) la foto, la poesia e il tuo splendido senso dello humour. Proprio pochi giorni fa ho scoperto il kintsugi nel capolavoro di Carla a Philo. Bellissima associazione! ti abbraccio illustrissimo com-pagno

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